Questa mattina Aussie e Kiwi hanno subito un tracollo dopo che le vendite al dettaglio australiane si sono stampate ben al di sotto delle attese e
Stando ai numeri diffusi oggi dall’Australian Bureau of Statistics, a maggio le vendite al dettaglio nel paese sono cresciute dello 0,3% su base mensile, mancando il +0,6% preconizzato dagli economisti. Il rialzo ha inoltre interessato soprattutto il New South Wales, con le vendite al dettaglio delle altre principali regioni del paese rimaste sostanzialmente invariate. La lettura di aprile è stata rivista in ribasso a -0,1% dal +0,0% annunciato in precedenza. Il fatto è che nonostante il calo record dei tassi d’interesse, la spesa australiana in consumi appare ancora congestionata: a maggio sono aumentate le vendite di alimenti e di beni per la casa, mentre si indebolivano quella per indumenti, dei grandi magazzini e dei caffè. Tutto ciò lascia pensare che i tagli dei tassi d’interesse decisi dalle autorità monetarie non siano riusciti a raggiungere l’economia reale e i consumatori. Non migliora neppure la fiducia dei consumatori: a giugno l’indice Westpac ha perso il 6,9% per calare a quota 95,3; si tratta del minimo dallo scorso gennaio.
Il Kiwi è scivolato di pari passo con l’Aussie nonostante la crescita registrata a giugno dell’indice Pmi composito curato da Hsbc relativo all’economia cinese – l’indicatore misura sia l’attività manifatturiera sia quella dei servizi. Il punto è che il ritmo di crescita è andato scemando fino a toccare un valore quasi marginale che costituisce il nuovo minimo dal maggio 2014. Dopo il 51,2 di maggio, l’indice è riuscito a mantenersi al di sopra di quota 50 pur arrestandosi al 50,6. Già mercoledì i due indicatori Pmi (quello ufficiale e quello curato da Hsbc) avevano evidenziato le difficoltà sperimentate a giugno da parte del vasto settore manifatturiero cinese, alimentando le richieste di nuove misure di stimolo volte a sostenere la crescita della seconda economia globale. L’indice Pmi ufficiale si è infatti attestato a quota 50,2: la lettura è invariata rispetto a quella di maggio ed è appena al di sopra della soglia a quota 50 che separa l’espansione e la contrazione dell’attività.
Oltre alla crisi greca, i trader si sono concentrati sulle buste paga non-agricole statunitensi di ieri. Il dipartimento del Lavoro ha comunicato che a giugno l’economia americana ha creato 223 mila nuovi posti di lavoro mentre il tasso di disoccupazione fletteva al 5,3% dal precedente 5,5%. Il dipartimento del Lavoro ha inoltre aggiunto che il numero dei nuovi posti è lievemente inferiore rispetto a quello preconizzato alla vigilia (+233 mila), che la crescita salariale è rimasta piatta e che in primavera il ritmo di creazione dei nuovi impieghi è stato inferiore rispetto a quello inizialmente stimato. Ciononostante, il rapporto costituisce il 14mo degli ultimi 16 in cui l’economia è stata in grado di creare più di 200 mila nuovi impieghi al mese. Gli investitori seguono con grande attenzione questi bollettini occupazionali al pari delle autorità della Federal Reserve, che se ne avvalgono per stabilire la propria politica in fatto di tassi d’interesse.
L’euro ha scontato un calendario economico piuttosto scarno e il fatto che l’attenzione dei trader è tutta per gli ultimi aggiornamenti dalla Grecia: l’esecutivo Tsipras ha promesso di rassegnare le proprie dimissioni se l’esito del referendum di domenica dovesse premiare il fronte favorevole al programma di aiuti e di riforme presentato dalle istituzioni internazionali. Il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis ha annunciato che il governo di estrema sinistra guidato dal primo ministro Tsipras “potrebbe con ogni probabilità” dimettersi nel caso in cui gli elettori dovessero ignorare i propri appelli a votare “No” al referendum. Per contro, i leader europei hanno ammesso che l’Eurozona entrerebbe in un territorio mai esplorato prima nel caso di vittoria del fronte del “Si”.
Il Fmi ha sottolineato il peggioramento della situazione greca riducendo dal +2,5% allo zero il tasso di crescita economica del paese per il 2015. Secondo gli esperi del Fondo, Atene necessiterà comunque di ulteriori 50 miliardi di euro per stabilizzare le proprie finanze anche se dovesse accettare il piano di aiuti dei creditori.