Il 10 novembre 2015 il Regno Unito ha ufficializzato quello spauracchio che da mesi vive sulla bocca dell’opinione pubblica omonima, ma che adesso è stato
Il 10 novembre 2015 il Regno Unito ha ufficializzato quello spauracchio che da mesi vive sulla bocca dell’opinione pubblica omonima, ma che adesso è stato pronunciato formalmente dal proprio premier, David Cameron: that’s Brexit!
A onor del vero, il primo ministro del Regno Unito ha inaugurato quel braccio di ferro, volendo essere pessimisti, o dialogo, guardando il bicchiere mezzo pieno, tra la nazione di Sua Maestà e il resto dell’Europa, spiegando al Royal Institute of International Affairs, davanti ad una selezionata platea, le motivazioni che hanno indotto il governo britannico a porre ben 4 opt-out al Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk.
Queste 4 richieste precedono il referendum sull’adesione o uscita dall’UE che avrà luogo a giugno, data lontana per un fenomeno elettorale dalla portata così ampia, ma forse neanche troppo.
Tale contingenza, seppur apparentemente slegata da politica e finanza italiane, appare invece di un’attualità e una vicinanza così rilevanti, da imporre diverse riflessioni.
È bene andare con ordine.
Il primo interrogativo (eufemismo) menzionato da Cameron pone l’attenzione su un’Unione Europea “più stretta”, motivando tale linea dalla convinzione britannica che l’UE sia concepita come “un mezzo verso un fine, non un fine in se stesso”.
Superando l’aplomb british, squisitamente altezzoso e sempre e solo orientato al risultato, risulta difficile non condividere un siffatto punto di vista, specie considerando come, purtroppo, i principi contenuti nel Manifesto di Ventotene siano stati completamente oltrepassati da un’Internazionalizzazione fallita, in un Continente dove un’unione sostanziale è completamente impossibile e sarebbe utopistico affermare il contrario, a meno di non voler filosofeggiare slogan di stampo intellettuale.
Concretamente, meno Paesi significa meno organismi decisionali, meno divergenze, ma anche un divisore minore tra cui ripartire risorse, sia nazionali che sovranazionali, vuol dire meno capitale speso per ammortizzatori sociali verso Nazioni che non contribuiscano alla Cosa Comune Europea, ma costituiscano solo una zavorra. L’Unione Europea consta di oneri e onori, non solo di onori.
Il secondo punto presentato dal Premier britannico inerisce la tutela del mercato interno per quei Paesi non partecipanti all’Eurozona, con formale riconoscimento che il single market è “multicurrency”; questa richiesta ha il sapore di pretesa, in quanto mostra un marcato disinteresse verso l’Unione Economica Monetaria, ma, a rigor di logica, è un diritto di Sua Maestà salvaguardare uno status economico che le è stato concesso dall’UE, al pari di Danimarca e Svezia.
Arduo immaginare che un’Italia che avesse una Lira forte come la Sterlina, nella stessa situazione, si comporterebbe diversamente.
Terzo punto: il Regno Unito auspica (non volendo usare un lessico più stringente) un maggior ruolo dei Parlamenti nazionali, ricordando come la “sussidiarietà” sia fondamentale all’interno dell’Unione.
Questa richiesta segna un passaggio fondamentale per le sorti dell’Europa, perché mette in luce un problema sistemico taciuto perché padre e/o figlio del fallimento europeo: appare alquanto inutile sostenere un’unione politica comunitaria che favorisca l’internazionalizzazione a tutti i costi, quando i 28 Stati Membri abbiano 28 legislature, storie e sistemi differenti.
Un accrescimento della funzione dei Parlamenti nazionali permetterebbe di rappresentare interessi più vicini alle realtà nazionali, con vantaggi anche in termini di concretezza e trasparenza, modulando il cieco orizzonte comunitario, sordo a qualunque tipo d’istanza.
È vero, il rischio di stravolgere una solidità comunitaria è fuori dubbio, ma è anche vero che i Trattati di Roma del 1957 e di Maastricht del 1992 si proponevano di migliorare un contesto, non di cristallizzarlo.
Ultimo punto, legato parzialmente al primo, ma di diverso e più specifico tenore, interessa l’accesso al Welfare degli immigrati intracomunitari.
Esulando da ogni tipo di questione politica, quello che rileva qui è lo status europeo presente, un continente culla di diritti civili ed esempio di apertura al multiculturalismo cui però non corrisponde un uguale rispetto del proprio status quo.
Pregnante, in tal senso, la posizione di David Cameron sulla libera circolazione dei cittadini: “Si tratta di un principio alla base dei trattati sul mercato unico e noi non vogliamo distruggerlo, ma dobbiamo trovare un modo per ridare equità, riducendo l’alto livello di migranti che muovono dall’Ue verso il Regno Unito”.
Ogni altra osservazione in merito sarebbe superflua, perché anche l’Italia vanta uno spiacevole primato in fatto di migranti, che costituiscono una questione complessa, sia in termini di gestione economica, sia sociale, sia di sicurezza, occupando risorse e know how che legittimamente appartengono al popolo italiano, innescando quelle problematiche già affrontate nel primo punto.
Se l’Europa vuole l’Europa, deve e dovrà fare l’Europa.
Dopo gli studi in Giurisprudenza frequenta un corso in mercati finanziari fortemente orientato all’apprendimento del trading sul Forex. Il “Dealing on Foreign Exchange Market –FOREX-“ gli fornisce gli strumenti per iniziare il percorso di trader, ambito in cui è attivo con particolare attenzione alle medie mobili.