La risposta dei miners al report diffuso da JP Morgan Chase
Nella data di ieri riportavamo fornivamo un report diffuso da JP Morgan Chase sull’effettivo valore del Bitcoin e sui criteri utilizzati per la sua individuazione.
Il documento ha sollevato diverse critiche nella comunità cripto, specie da parte dei soggetti interessati dalla disamina in questione.
Gli stakeholder di cui sopra sono proprio i minatori.
Da più parti si registra una ferma risposta dei miners di tutto il mondo in cui si sostiene come costo marginale e corretto valore di BTC siano concetti non applicabili alla cripto nakamotiana, dal momento che i parametri utilizzati non avrebbero consistenza.
Più miners sostengono anche come sia proprio la peculiare struttura della rete nakamotiana e i suoi continui upgrade a rendere gli argomenti usati da JP Morgan molto dibattuti.
Nel dettaglio, il BTC ha una fornitura complessiva di 21 milioni, così come una giornaliera di 1800.
I nodi del mining a livello globale sono perennemente in concorrenza tra di loro per ottenere il premio relativo all’approvazione per ciascun blocco. Correntemente, i 12,5 BTC si ridurranno del 50% al prossimo halving (l’evento che si verifica ogni quattro anni per cui il compenso che ricevono i minatori per la loro opera si dimezza).
Operata questa premessa che racchiude il credo comune della community fintech, risulta opportuno riportare quanto affermato da Ben Gagnon, co-fondatore di LuTech, sviluppatore hardware che mina le criptovalute in Cina.
Il manager della società di mining affida le sue parole al South China Morning Post (SCMP): “ Non potrebbe esserci un costo medio, né un punto di break-even per l’intero mercato, perché il modo in cui funziona la blockchain del Bitcoin implica che ci saranno sempre minatori in procinto di creare blocchi e ottenere premi BTC finché potranno operare con un hardware efficiente dal punto di vista energetico ma a basso costo elettrico”.
Gagnon fa poi notare che l’ecosistema del mining sia in continuo cambiamento e reagisca alle condizioni prevalenti del mercato. A metà novembre del 2018 i prezzi del BTC precipitano quasi sotto soglia 3000 dollari. Questa caduta si dimostra fatale per quasi 800.000 minatori che sono forzati a interrompere le loro operazioni.
Di conseguenza, l’hashrate della rete conosce una flessione, con meno nodi di mining presenti che rischiano di ridursi uno per uno. I minatori capaci di operare ancora con profitto continuano a minare il Bitcoin.
Secondo SCMP, minatori come LuTech e Bitfarm Technologies hanno costi di mining molto inferiori rispetto al “corretto valore” di cui parla JP Morgan nel suo report.
Da quanto emerso sopra, si può comprendere come da parte della community l’accento sia posto sull’esigenza minatoria di ricevere il compenso per l’attività svolta, contingenza che secondo Gagnon giustificherebbe il prezzo di mercato del BTC, considerato reale e non gonfiato da altre voci spesa.
È interessante al contempo notare come JP Morgan non sia il primo soggetto a proporre un valore corretto per la valuta nakamotiana.
Per la maggior parte del 2018, mentre restava fedelmente in attesa della previsione di prezzo di 25.000 dollari, anche Tom Lee di Fundstrat suggerì un costo di break-even per il BTC. L’analisi di Lee sul punto di break-even suggeriva che il corretto valore della divisa nakamotiana fosse di 14.800 dollari, questo quando tra novembre e dicembre la valutazione del Bitcoin era in quota 3900 dollari.
Appare complicato entrare nel merito della questione assegnando obiettività prevalenti all’una o all’altra interpretazione, quel che rileva qui è che i mercati non potranno non recepire una simile querelle, reagendo in maniera sensibile come storicamente è sempre accaduto in tema di Bitcoin.
Dopo gli studi in Giurisprudenza frequenta un corso in mercati finanziari fortemente orientato all’apprendimento del trading sul Forex. Il “Dealing on Foreign Exchange Market –FOREX-“ gli fornisce gli strumenti per iniziare il percorso di trader, ambito in cui è attivo con particolare attenzione alle medie mobili.