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Italia: le politiche 2018 e il quadro generale

Da
Lorenzo Cuzzani
Aggiornato: Nov 30, 2018, 19:09 GMT+00:00

Gli scenari post voto italiano del 4 Marzo 2018

Elezioni Italiane

Il 4 marzo è andata in scena l’italica corsa alle urne.

Il clima elettorale rovente ha alimentato il dibattito pre e post voto, arrogandosi quasi il diritto di assurgere a vero protagonista di questa tornata elettorale di fine inverno.

Il paradosso del risultato elettorale fotografa un Paese dove il chiaro primato di due orientamenti arricchisce l’ambiguità di scelte dettate mai come ora da promesse dalla veridicità indecifrabile.

Il popolo italiano ha eletto come prima forza politica la coalizione di centrodestra, il cui consenso è giunto al 37,03%. Partito leader dell’alleanza è la Lega, il cui picco di 17,37 punti percentuali segna un record da quando il piccolo movimento territoriale sito in Nord Italia ha mosso i primi passi nel 1989.

Subito sotto la Lega è presente Forza Italia, con il 14,01% delle preferenze e una leadership persa in termini di elettori, seppur non completamente fuori dai giochi come interlocutore politico.

Seguono Fratelli d’Italia con il 4,35% e il comparto centrista Noi con l’Italia (Raffaele Fitto) e Unione di Centro (Lorenzo Cesa) con l’1,30%.

Il quadro stilato sopra fornisce innanzitutto delle indicazioni quanto mai chiare: le elezioni del 2018 hanno sancito il canto del cigno dell’orizzonte centrista, il cui elettorato sembra aver migrato verso altri lidi lasciando solamente il simbolo a quello che orgogliosamente si definiva erede della vecchia DC.

In secondo luogo, il risultato ottenuto da Fratelli d’Italia consta di grande importanza nell’economia del primato del centrodestra, utile all’ottenimento della maggioranza dei voti e per la prima volta superiore allo sbarramento del 4%. Un esito notevole se raffrontato al 3,67% del 2014 e all’1,96% del 2013.

Come anticipato sopra, chi forse ne esce ridimensionato è proprio il leader morale (e non solo) Forza Italia, il cui secondo posto nelle preferenze dell’elettorato di destra può spiegarsi con una figura di riferimento un po’ tramontata che paga dazio verso questa ondata di nuovo che avanza e che negli anni ha permesso il fiorire di nuovi guru politici. Tra gli altri, Renzi, i 5 stelle in generale e, per l’appunto, Matteo Salvini.

Un probabile nuovo leader («Non mi scanso») il cui impegno in campagna elettorale ha portato un indiscusso successo sia in termini di pubblico, sia di forza politica.

La coalizione di centrodestra così composta si trova a fare i conti con una leadership politica (Matteo Salvini) e con una storica (Silvio Berlusconi), con il rischio di veder frazionati i propri voti verso un orizzonte non comune.

Per quanto parlare di orizzonte non comune appaia dai connotati esagerati, non può sottovalutarsi la possibile alleanza e migrazione del Carroccio verso lidi pentastellati.

Sì perché il Movimento 5 stelle è stato il vero vincitore di queste politiche 2018, prendendo da solo il 32,66% dei voti e confermandosi prima forza politica indipendente. In quest’ultimo termine dai risvolti quasi autosufficienti si annida il novero di possibili scenari.

Giova ricordare come il Movimento si sia sempre professato unico e solo, sordo a qualsivoglia tipo di accordi, intese e/o giochi di palazzo che potessero garantire una stabilità che per scelta fosse da ricercare solo dentro la ristretta e poi estesa rete di aderenti.

La visione di cui sopra sembra essere cambiata o quantomeno modulata.

Colpiscono, anche se non sorprendono appieno, le parole di Luigi Di Maio, con cui il n.1 del Movimento strizza l’occhio a eventuali soggetti interessati a cooperare: “Siamo aperti al confronto con tutte le forze politiche a partire dalle figure di garanzia che vorremmo individuare per le presidenze delle due camere ma soprattutto per i temi che dovranno riguardare il programma di lavoro”.

Un’apertura che sebbene sembri indirizzarsi alla totalità del panorama politico tricolore, appare più mirata al vero sconfitto del 4 marzo: il Partito Democratico.

Quanto appena affermato trova fondamento nella critica velata di Di Maio alla Lega, in cui in maniera asettica e senza nominarla, si limita a stigmatizzarla in un tertium non datur: “gli altri? Sono forze politiche territoriali e dobbiamo constatare che le coalizioni non hanno i numeri per governare”.

Molta retorica nell’affermazione di cui sopra, anche se l’improvvisa apertura del leader grillino sarebbe coerente con la smobilitazione dello stato maggiore del Pd, con Renzi (“chi vuole il Governo con M5s o con le destre, lo dica in direzione”), Calenda (“se il Pd si allea con il M5S il mio sarà il tesseramento più breve della storia dei partiti politici”) e Orlando (“il 90% del gruppo dirigente del Pd è contrario a una alleanza con il M5s”) a guidare i niet verso improbabili alleanze con i pentastellati.

Il dibattito di cui sopra potrebbe divenire la chiave di volta dell’interrogativo circa le intese, non larghe, ma quantomeno implicite. Se davvero il Pd si dividesse e un’ala confluisse fuori addivenendo a più miti consigli verso i 5 stelle, Di Maio e compagni avrebbero un interlocutore sicuramente meno scomodo della Lega.

Una Lega cui sarebbe difficile conciliare un cavallo di battaglia elettorale come la Flat tax al 23% con l’altrettanto vincente reddito di cittadinanza pentastellato.

Due misure di questo tipo appaiono inconciliabili, perché colpiscono più voci spesa in maniera distorta, non levando da una parte e mettendo dall’altra, ma levando da entrambe.

Se è vero che il Bel Paese consta di un endemico problema fiscale, con elusione/evasione fiscale, sperequazione imposte contro servizi offerti e contenziosi infiniti verso Equitalia e Agenzia delle Entrate, è pur vero che l’imposta fissa (di concerto con l’imposta fissa del 15% per il rientro di capitali in territorio nazionale) non permetterebbe, almeno all’inizio (volendo essere ottimisti) di raggiungere un gettito capace di rispettare il pareggio di bilancio del 3% come da impegni comunitari. In più, erogando un’iniezione di liquidità come reddito di cittadinanza, lo Stato si troverebbe ad avere un altro costo fisso sistemico che accrescerebbe ancor di più il debito pubblico nazionale, ben al di sopra del 60% imposto dall’UE.

Quanto detto sopra, senza considerare l’intento grillino di finanziare il debito pubblico in deficit con una manovra da 80 miliardi di euro.

Questi numeri forniscono lo spunto per un’analisi concreta il cui esito sembra ravvisarsi nell’impossibilità delle misure di cui sopra e quindi anche della difficoltà di un punto d’incontro politico a livello d’intesa.

Ultimo, ma non meno importante, il ruolo del Cavaliere nella vicenda politica. Figura di spicco della politica degli ultimi 24 anni, Silvio Berlusconi non sembra abdicare al ruolo di direttore d’orchestra.

Per sua stessa ammissione: “Sono felice per Matteo Salvini, sono felice per la Lega con cui siamo stati per lunghi anni al Governo e con la quale governiamo regioni importanti. Confermo nel rispetto verso gli alleati e dei patti intercorsi rimango il leader di Forza Italia, sarò il regista del centrodestra e il garante della compattezza della coalizione”.

Da quanto emerso sopra, sarà complicato superare l’impegno politico forzista sulla base di 3 punti percentuale, anche considerando la coerenza programmatica dei due partiti.

D’altro canto, non sembra plausibile lasciare fuori dall’Esecutivo il primo partito italiano per voti ottenuti, quel Movimento 5 stelle la cui eco elettorale ha colpito trasversalmente il Bel Paese imponendo legittimamente la propria forza politica.

La palla quindi passerebbe al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il cui compito delicato sarà operare una scelta che tenga conto di ogni possibile scenario e incastro istituzionale.

Tra gli scenari possibili vi sarebbe proprio un Governo di scopo, la cui necessarietà imponesse cogenza alle forze politiche chiamate a governare probabilmente per un anno, confidando nel senso di responsabilità di queste ultime.

Sì, certo, il rischio di franchi tiratori e di Governo sfiduciato rimarrebbe.

Sì, ovviamente un Governo di Scopo oltrepasserebbe la delicata fase autunnale, periodo in cui la Manovra potrebbe costituire unione d’intenti e rimandare il voto con una legge elettorale nuova e un clima maggiormente oculato da parte di chi ha il dovere di governare.

La conclusione di questa analisi non può che prendere le mosse dai rapporti tra il Bel Paese e l’Unione Europea.

Se sopra si documentava delle problematiche in capo alla sola questione economica, con i vincoli che l’Italia, in quanto paese membro, deve rispettare, adesso è possibile riprendere la questione evidenziando come il ventilato proponimento di uscire dall’UE, abbandonare l’unione monetaria e chi più ne ha più ne metta, da parte di diverse forze politiche, sia mutato in trasversale ma più ragionevole obiettivo di rinegoziazione dei trattati firmati per porre l’accento sull’Italia come paese sovrano e non vincolato in maniera asfissiante a una collettività che la affossi.

La vicenda europea sarà dirimente nella gestione della leadership governativa ma altrettanto importante sarà osservare quali punti programmatici avranno rivestito puro carattere propagandistico e quali saranno invece scelti come priorità sic et simpliciter.

Sull'Autore

Lorenzo Cuzzanicontributor

Dopo gli studi in Giurisprudenza frequenta un corso in mercati finanziari fortemente orientato all’apprendimento del trading sul Forex. Il “Dealing on Foreign Exchange Market –FOREX-“ gli fornisce gli strumenti per iniziare il percorso di trader, ambito in cui è attivo con particolare attenzione alle medie mobili.

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