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Petrolio: la crisi dell’oro nero tra Wall Street, Big Tech e fondi d’investimento

Da
Lorenzo Cuzzani
Aggiornato: Oct 31, 2019, 10:41 GMT+00:00

Il difficile momento dell'oro nero

prezzo oro

È innegabile come il comparto petrolifero stia conoscendo un momento di crisi di sovvenzionamenti.

La vena creditizia alimentata per anni dai piani alti dell’alta finanza newyorchese, specialmente orientata a foraggiare lo shale oil nell’ultimo decennio, sembra aver trovato uno sbarramento.

Più che sbarramento, sarebbe opportuno parlare di opportunità d’investimento differenti.

Wall Street guida le piazze in cui i ribassi valoriali stiano segnando un nuovo record nelle peggiori prestazioni di ogni tempo.

Dati alla mano, da marzo 2009 il comparto Energy ha ceduto quasi il 20% della propria capitalizzazione, attestandosi su quota 4,4% nell’indice S&P500 nel mese di agosto, in piena caduta libera dal valore 11,7% del decennio precedente.

L’anno solare che si appresta a concludersi registra un balzo di quindici punti percentuale sul listino principale, ma un simile progresso non è sufficiente da solo per ripristinare il successo di un settore che sembra cedere il passo a competitor più stimolanti per gli investitori.

Tra questi, spiccano tutti quei colossi tech e it che hanno rivoluzionato l’orizzonte degli investimenti negli ultimi anni, ponendosi come realtà più credibili al passo con la crescente domanda digitale.

 Un esempio in tal senso è il declino di ExxonMobil in concomitanza con il progredire repentino e consolidato del comparto Tecnologia avviato da Intel, Ibm e Microsoft specialmente negli anni Novanta, proseguito in maniera massiva da Apple, Alphabet (holding di Google) e Samsung negli ultimi dieci anni.

Se non sono cambiate le esigenze reali in termini di energia, la necessità di consumo non è sufficiente ad arginare la domanda tecnologica. Il mondo digitale si avvale di un tipo di marketing che è arduo da bypassare, oltrepassare e superare, rendendo oggi il novero d’investimenti sempre più orientato verso strumenti tecnologici che veicolino una comunicazione mediata e spesso fine a se stessa, ma tale da risultare preponderante nelle esigenze del consumatore medio.

Il cambio al vertice dell’eccellenza finanziaria è presto detto: la citata ExxonMobil nel mese di agosto si attesta addirittura fuori dalla top ten delle aziende più virtuose al mondo, sprofondando al dodicesimo posto, superata dai giganti d’alta finanza Visa e Procter&Gamble, per non parlare di Berkshire Hathaway, il colosso di Warren Buffett.

La totale assenza di compagnie petrolifere ed energetiche di ogni tipo nella top ten delle blue chips potrebbe far pensare a una flessione sistemica dell’intero settore, catalizzata anche dalla sempre più crescente ondata di consensi verso la transizione energetica.

Anche se appare difficile ipotizzare un calo netto nella domanda effettiva di energia, considerando anche il massiccio consumo della stessa dalle medesime aziende big tech, ma soprattutto l’insieme di economie in via di sviluppo, per la cui determinazione non sembra possibile il taglio di ingenti forniture d’energia, a meno di non volerne stroncare la crescita.

D’altra parte, il ribasso di molti titoli petroliferi, come il dividend yield di Exxon (5%), Chevron (4%), Bp (6%) e Shell (7%) induce a considerare un rilancio del comparto, seppur nel lungo periodo.

Di contro, c’è anche chi pensa di espellere le Big Oil dal proprio portafoglio, come il fondo danese Mp Pension.

Il fondo istituito per accademici, professori e psicologi ha deciso di rimuovere dalla lista di titoli tutte quelle big corp che hanno mostrato disinteresse verso la materia ambientale, includendo quindi la lotta al cambiamento climatico e l’inquinamento a 360°.

Nessuno escluso, neanche Total, Bp, Equinor e Shell, nonostante tentativi di porre in essere procedure che permettessero loro di affrancarsi parzialmente da realtà più inquinanti come Chevron, ExxonMobil, Sinopec, Rosneft, Petrobras e Petrochina.

La falce del disimpegno danese si abbatterà su tutte queste multinazionali, per un valore di 644 milioni di corone, vale a dire 86 milioni di euro.

 Secondo quanto affermato da Anders Schelde, Chief Investment Officer del fondo, la motivazione dietro una simile decisione non è da ricercarsi solamente nel voler concorrere a rendere il mondo un posto migliore, ma prende le mosse anche da interessi concreti, interessi nel senso stretto del termine.

“Abbiamo condotto anche analisi e concluso come questa sia la giusta decisione relativamente ai nostri interessi. Non crediamo che questo settore possa avere un ritorno pari al resto del mercato negli anni successivi. La domanda di petrolio diminuirà al crescere della transizione verde”.

Aggiunge poi: “Nelle stime di Mp, tutti questi dati mostrano che le dieci compagnie non sono e non possono essere compatibili con l’accordo di Parigi alla fine del 2020. Abbiamo certamente considerato se aspettare di vendere le quote fino al 2020, in caso si verificasse un’inversione positiva. Ma in tal caso preferiremmo disegnare una linea nella sabbia ora, dal momento che non crediamo che in questo contesto possiamo influenzare le compagnie fino al 2020”.

In conclusione: “Speriamo che queste dieci compagnie accetteranno la transizione verde molto più seriamente e si prenderanno la grande responsabilità di conformare il loro business all’energia rinnovabile. Quando questo avverrà, saremo molto felici di tornare a investire nei titoli che li rappresentano, ma questo richiede un grande cambiamento in tutte e dieci le compagnie”.

Non sembra sia opportuno aggiungere altro al diktat danese, chiaro e preciso.

Un orientamento che percorre una via già tracciata dal fondo sovrano norvegese.

Il Norway’s Government Pension Fund Global, fondo pensionistico più grande al mondo, il cui patrimonio si estende oltre 1000 miliardi di dollari, si appresta a disinvestire tutti quei titoli concernenti le multinazionali attive nell’esplorazione e produzione di idrocarburi.

A inizio ottobre il ministro delle finanze norvegese, Siv Jensen, ha illustrato i contorni di un simile disimpegno, chiarendo come la ratio di una simile scelta prenda le mosse dalla situazione odierna del mercato degli idrocarburi, reputato troppo instabile e il cui avvenire sembra essere pesantemente messo in discussione dalle energie alternative.

Tali energie, continua Jensen, unite a mobilità elettrica e reti varie, catalizzeranno il flusso di capitali dei grandi investitori.

Da qui, il disinvestimento di quelle realtà che con il loro operato compongono un insieme di elementi ostativi al corretto autodeterminarsi del pianeta, come per esempio “società attive nella produzione di armi nucleari, di tabacco, o responsabili di corruzione”, secondo Repubblica.

Sembrano essere salvi, comunque, i grandi attori petroliferi come Royal Dutch Shell, di cui il fondo possiede partecipazioni rilevanti, Bp e Total, oltre a Eni.

Potrebbe essere invece espunta dal novero delle società virtuose la Saras.

Il processo sarà comunque lento e graduale.

Queste alcune delle società che subiranno il delisting: Novatek, Reliance Industries, Eog Resources, Cnooc e Pioneer Natural Resources, per un valore di 7,6 miliardi di euro.

Da non sottovalutare come la scelta governativa norvegese abbia in qualche modo operato un cambio di rotto rispetto all’iniziale proponimento di compiere un disimpegno completo del comparto Oil & Gas, al fine di cautelarsi dalle montagne russe valoriali proprie del mercato petrolifero.

Sebbene sia innegabile come vi sia un fermento esponenziale verso orientamenti green friendly, la Norvegia non ha ritenuto opportuno dismettere quote sociali di 341 società per ben 37 miliardi di dollari.

La Jensen è cauta sul punto: “Sarebbe triste se in futuro non potessimo investire in quelle società”.

Giova ricordare come la Norvegia sia uno dei maggiori player in ambito di combustibili fossili, con 1,9 milioni di barili al giorno di petrolio e 120 miliardi di metri cubi all’anno di gas, quindi appare palese come Oslo non intenda chiudere i propri giacimenti, così come intenda tutelare proprio l’attività della Equinor, l’azienda nazionale petrolifera (partecipata dallo Stato per il 67%).

Dal caso norvegese il passo nella terra d’Albione è breve: così si assiste al delisting del comparto Oil & Gas dalla piazza londinese London Stock Exchange, in favore di una presenza fissa delle rinnovabili.

Secondo molti, però, il calo di fiducia verso il settore energetico non è da ascriversi solo all’estasi ambientalista personalizzata dalla piccola Greta Thunberg.

Spostandosi oltreoceano, si nota con chiarezza come un fardello non indifferente dell’indice S&P500 sia costituito dall’insieme delle società operanti in ambito di shale oil e dalle società fornitrici di servizi petroliferi.

Le prime non vantano più quella credibilità conquistata subito, scontando anche perplessità in materia di norme di sicurezza futuribilità, le seconde faticano a rialzarsi dalla crisi conosciuta nel biennio 2014-2016.

Nel dettaglio, l’intero ramo Energy Equipment & Services dell’indice è in ribasso di oltre il 12%, mentre l’Oil & Gas è in rialzo di circa 1 punto percentuale, vale a dire solo un’inversione di tendenza rispetto al dato negativo, senza consolidare un aumento degno di nota.

Questo quadro di minima risalita non vanta carattere né obiettivo, né coerente.

Se Chevron e Hess guidano il progresso con valori di +8% e addirittura +70%, Cimarex, Concho e Occidental cedono il passo, segnando un momento di crisi non indifferente della divisione shale oil.

Situazione differente in Europa, dove Total, Shell e Bp sembrano scontare meno il difficile momento.

Il contesto delineato offre lo spunto da cui prendere le mosse per documentare le varie scelte con cui compagnie e fondi abbiano deciso di ovviare alla crisi di settore, nella consapevolezza che una simile congiuntura non ha né avrà la stessa dimensione della crisi del 2008, anno in cui i mutui subprime mostrano al globo tutta la fragilità della finanza creativa.

Da finanza creativa a finanza preventiva, se non speranzosa, il passo è breve.

Giochi di parole a parte, Raisa Energy ed EnCap Investments hanno inaugurato la pratica di emissione di bond del comparto energia, sicure che un simile strumento finanziario renderà il 6%.

“Siamo molto eccitati di portare questo strumento finanziario di trasformazione nel mercato di petrolio e gas. Ancora più importante è il fatto che siamo estremamente orgogliosi dei membri della nostra squadra e dei loro notevoli sforzi per costruire una grandissima società con la capacità e l’abilità richieste per realizzare questa importante pietra miliare”.

L’entusiasmo di Jeremy Cook, amministratore delegato di Raisa, rende l’idea dell’atmosfera di ottimismo intorno al progetto.

Un entusiasmo contagioso, dal momento che, secondo il Wall Street Journal, sarebbero diverse le società in procinto di emettere bond simili.

Questo tipo di strumento finanziario sembra collocarsi, o almeno averne la vaga pretesa, in quel vuoto lasciato dalla chiusura dei rubinetti da parte dei fondi di private equity.

Da sempre attenti a tutto il comparto petrolifero, i fondi sembrano aver differenziato il proprio portafoglio. Si assiste infatti a una migrazione di capitali verso tutto l’insieme di processi di trasporto petroliferi a dispetto dello storico finanziamento di produzione fossile, siti e attività esplorativa.

Il midstream appare più remunerativo dell’upstream.

Esempi di una scelta siffatta non mancano.

A tal proposito può ricordarsi il gigante Carlyle, il cui repentino disimpegno dal progetto di edificazione di un nuovo terminal per le petroliere in Texas ha sorpreso la platea d’investitori, alla luce del miliardo di dollari stanziato al riguardo.

La situazione non migliora a livello bancario: più della metà dei 221 operatori intervistati dallo studio legale Haynes & Boone ha rivelato che prevede un taglio dei fondi la cui forbice si attesti tra il 10% e il 20% nel prossimo trimestre.

 Sempre secondo lo studio legale di Dallas la maggiore criticità del settore petrolifero è da ricercarsi nella risibile quota di liquidità derivante dal mercato dei capitali, da sempre fulgida arteria su cui l’intero comparto ha fatto affidamento per anni, specialmente il fracking.

Sono infatti 462 i miliardi di dollari ottenuti dai frackers negli ultimi dieci anni, sotto forma di azioni e obbligazioni. Secondo Haynes & Boone un simile canale non avrà più una portata del genere, anzi, sono in molti a prevedere che la percentuale di approvvigionamento in tal senso potrà raggiungere il 5% del totale, con un calo di ben quindici punto in quota annua.

 Stesso discorso per i fondi di private equity, il cui contributo si è ridotto di ben quattordici punti, passando dal 25% all’11%.

 Da un punto di vista cronologico, si può parlare di annus horribilis per il petrolio.

La flessione dell’oro nero ha avuto luogo proprio lo scorso anno, proprio in questo periodo.

Il brusco calo subitaneo alla rottura del livello di 80 dollari al barile ha causato l’impossibilità, da parte delle big oil stelle strisce, di collocare azioni e obbligazioni per un valore concretamente redditizio.

Il valore delle stesse è stato di 22,8 miliardi di dollari, risultato peggiore dal 2007. Una tendenza ben recepita dal 2019 in cui nella prima metà si è registrata un’emissione azionaria di 716.000 dollari e un valore obbligazionario di 6,56 miliardi.

Un coefficiente valoriale che illustra da solo la dimensione della crisi petrolifera, con volumi preoccupanti.

Il periodo storico in questione mostra tutto il paradosso dell’epoca di modernità in cui viviamo: non è possibile rinunciare all’energia per vivere ma al contempo l’universo di grandi investitori sembra migrare verso settori dall’utilità effimera, la cui funzionalità sia ancora strettamente (anche se non completamente) legata al determinarsi del mercato energetico.

Sull'Autore

Lorenzo Cuzzanicontributor

Dopo gli studi in Giurisprudenza frequenta un corso in mercati finanziari fortemente orientato all’apprendimento del trading sul Forex. Il “Dealing on Foreign Exchange Market –FOREX-“ gli fornisce gli strumenti per iniziare il percorso di trader, ambito in cui è attivo con particolare attenzione alle medie mobili.

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