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L’economia Israeliana Che Sembra Non Conoscere Ostacoli Potrebbe Essere Colpita Duramente dalla Guerra Commerciale di Trump

Da:
Alberto Ferrante
Aggiornato: Jun 28, 2018, 14:03 UTC

%%excerpt%%Con un'industria high-tech in grande fermento, la Startup Nation continua a cavalcare lo sviluppo economico. Il PIL nel primo trimestre del 2018 è cresciuto del 4.2% e le esportazioni di prodotti tecnologici sfiorano la metà del totale, ma la guerra commerciale di Trump potrebbe seriamente compromettere il futuro del Paese.

Israele Economia Trump

Da molti considerata come un interessante caso accademico, l’economia israeliana continua a stupire gli studiosi di tutto il mondo, per una costante solidità che sembra resistere a guerre, crisi finanziarie internazionali e disordini sociali.

Basti pensare, in tal senso, all’estate del 2006, in cui la guerra tra Israele e il movimento libanese degli Hezbollah terrorizzò la popolazione con bombardamenti a tappeto nella parte più settentrionale del Paese. In quell’anno, nonostante ciò, Israele registrò un aumento del PIL pari al 6%.

Anche la crisi finanziaria del 2008 sembrò non sfiorare il Paese, impegnato in quel momento in altri conflitti contro Hamas.

Stando a quanto presentato recentemente dall’economista portoghese Alvaro Pereira, l’economia israeliana è cresciuta più velocemente e con più costanza di ogni altra economia dell’OECD negli ultimi 15 anni.

Il PIL ha visto una crescita media pari a circa il 3.3% annuo, parzialmente attribuibile all’incremento della popolazione e ad alcune interessanti politiche macroeconomiche, che hanno incoraggiato lo sviluppo del settore high-tech e dei finanziamenti venture capital.

Anche l’inflazione in questi anni è stata tenuta sotto controllo, a quota 0.4% nel 2017; secondo la Banca Centrale, il fattore che ha contribuito maggiormente a tale risultato è stato l’abbassamento dei prezzi dei beni soggetti a controllo dei prezzi da parte del governo.

L’economia israeliana continua a performare egregiamente anche in questa prima metà del 2018: le principali industrie e il sistema bancario continuano a crescere, mentre il PIL è aumentato del 4.2% nel primo trimestre del 2018, in linea con gli ultimi due incrementi trimestrali dell’anno scorso.

E’ altrettanto interessante osservare come nell’ultimo decennio Israele abbia generato, in proporzione, più start-up di ogni altro Paese, meritando l’ormai nota denominazione di Startup Nation e attraendo importanti investimenti da parte di multinazionali affascinate dalla rivoluzione tecnologica ancora in corso.

Il settore High-Tech in Israele, infatti, impiegando appena l’8% della forza lavoro industriale totale, ha generato circa il 13% del prodotto interno lordo nazionale del 2017, contribuendo a quasi la metà delle esportazioni complessive. Tel Aviv è riuscita ad attrarre investimenti per 5 miliardi di dollari nel 2016 e a incuriosire oltre 300 multinazionali, tra cui Amazon, Google, Facebook, Apple e Huawei, ben liete di aprire importanti centri di ricerca nel territorio.

Oggi, Israele è la settima Nazione in termini di esportazioni di prodotti e servizi tech, informatici e di comunicazione.

A fronte dell’ottima performance degli ultimi anni, l’OECD ha osservato un’ancora drammatica situazione di disugaglianza sociale, dovuta a un’inadeguata coesione della popolazione. La classe operaia soffre ancora salari troppo bassi e livelli di istruzione insufficienti, mentre l’intera popolazione lamenta prezzi degli immobili incredibilmente alti. Il governo ha provato in più occasione a mitigare l’inflazione nel settore edile, senza successo. Numerosi gli interventi anche sul fronte infrastrutture, dove i mezzi di trasporto pubblico vivono in un quasi paradossale contrasto rispetto alle innovative e rivoluzionarie applicazioni tecnologiche che permeano gli altri settori, agricoltura compresa.

Il più importante monito lanciato dall’OECD riguarda un dato effettivamente preoccupante: sebbene la crescita del Paese sia agevolmente trainata dal vivace settore high-tech, gran parte della popolazione è ancora impiegata nei settori meno produttivi. Il governo, stando a quanto riportato, sembrerebbe non essersi impegnato a sufficienza nella creazione di nuovi posizioni lavorative nei settori trainanti, concentrandosi maggiormente su settori secondari, come il turismo, caratterizzato storicamente in Israele da salari ben più bassi.

In tal senso, il report ufficiale sottolinea come l’aumento della produttività sia garantito da un lavoro più intelligente, più che da un banale incremento dello stesso. La dichiarazione si riferirebbe, per l’appunto, a un settore altamente tecnologico che dovrebbe essere supportato maggiormente.

Quanto fin qui riportato rappresenta però un universo di ombre sull’economia israeliana non imminenti e ancora arginabili, soprattutto se poste a confronto con gli ultimi preoccupanti sviluppi del protezionismo commerciale americano.

Secondo la Banca Mondiale, Israele esporta circa il 30% del suo PIL, una percentuale elevatissima, che supera di gran lunga i valori raggiunti da USA e Cina. Come precedentemente evidenziato, gran parte delle esportazioni sono costituite da prodotti dell’industria high-tech. Il rischio è che la guerra commerciale e la conseguente contrazione dei commerci mondiali possa indebolire Israele, per via della sua natura di Paese esportatore, da tempo aperto agli scambi con l’estero. La situazione si complica, e una nube di incertezza cala sullo sviluppo economico israeliano, se si considera che il Paese è strettamente dipendente dalle importazioni per tutti i beni intermedi necessari per gli straordinari risultati raggiunti dalle sue industrie.

 

Sull'Autore

Dopo la laurea in Economia Aziendale a Catania inizia a scrivere per diverse testate, prevalentemente di cultura, tecnologia ed economia. Con stretto riferimento alla collaborazione con FX Empire, iniziata nell’Aprile del 2018, ha curato una rubrica su analisi di premarket in Europa, prima di concentrarsi su analisi tecnica di materie prime, cambi valutari e criptovalute.

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